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La nascita del Partito Democratico

Continua la pubblicazione de Il Dono: capitolo II

La Carta Costituente, all’art.49, stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti politici trovano la loro ragione di essere proprio in questa norma con la quale i costituenti intesero ricostruire il tessuto democratico del Paese dopo la dittatura. I partiti (meglio le forze politiche che nella Resistenza avevano sconfitto il fascismo) furono elevati al rango di soggetti “costituzionalmente rilevanti”: con loro e tramite le loro strutture si sarebbero formati il consenso elettorale e le classi dirigenti che avrebbero guidato le comunità.

Tuttavia, allora e negli anni che seguirono, fu commesso un grave errore: non si volle dare concretezza al dettato costituzionale, istituzionalizzando, con legge ordinaria, le strutture organizzative dei partiti, dettando, in altre parole, le regole democratiche che avrebbero dovuto guidare i processi e le scelte all’interno dei partiti nel rispetto della libertà, della democrazia e della legalità.

L’esistenza dei cosiddetti “partiti di massa” garantiva, in parte, la più ampia partecipazione ed il massimo controllo possibile e nessuno, allora, avrebbe immaginato che, qualche decennio dopo, sarebbero nati i “partiti personalistici”, quelli che, nei fatti, avrebbero distrutto la dialettica democratica al loro interno. Soprattutto, nessuno avrebbe mai immaginato che il Paese sarebbe stato “governato” da una classe dirigente nata dal nulla, priva di formazione e di esperienza politico-amministrativa, promossa alla guida del Paese da poche decine di preferenze espresse in rete ma legittimamente chiamata al governo dal voto popolare. Un voto uniformesu tutto il territorio nazionale, se è vero come è vero che, nelle ultime elezioni politiche del marzo 2018, i 5Stelle sono stati il primo partito ovunque tranne in Toscana e Trentino Alto Adige, dove sono secondi dopo il PD ed in Veneto, Friuli e Lombardia, dove sono secondi dopo la Lega.    

Certo, se la classe politica avesse affrontato la questione della definizione dei partiti politici, del loro ruolo e della loro struttura organizzativa con una normativa semplice e chiara non vi sarebbero state le aberrazioni che abbiamo conosciuto nella cosiddetta seconda repubblica ed il rispetto delle regole avrebbe impedito le anomalie che si sono verificate dopo (e probabilmente i rischi per la democrazia e per la libertà di tutti). Ma i partiti hanno utilizzato la legislazione ordinaria, in relazione ai partiti, quasi esclusivamente, per garantire privilegi alla classe politica e per auto-finanziarsi con le risorse dello Stato (scelte, inutilmente, bocciate dal voto referendario) fino a farne quei centri di arricchimento e di potere che l’elettorato ha voluto sonoramente punire con un voto di protesta lucido e ragionato.

Certo, hanno sbagliato tutti i partiti, ma la sinistra ha sbagliato più degli altri!

Qualcuno avrebbe potuto mai ipotizzare che Berlusconi ed i suoi alleati potessero avere la sensibilità necessaria a scrivere una legge che “normalizzasse” la vita dei loro partiti? Forse, gli iscritti ed i dirigenti della destra (berlusconiana e non) hanno mai utilizzato regole democratiche per scandire i processi decisionali delle loro formazioni politiche? Qualcuno avrebbe potuto mettere in dubbio la leadership di Berlusconi? O eleggere un segretario a lui sgradito o, infine, designare ad una qualsiasi carica una persona non condivisa dal padre-padrone di Forza Italia?     

Ora, se tutto questo e cose anche peggiori (cfr:” che fai mi cacci” di G. Fini) avvenivano nello schieramento cosiddetto di centro-destra, nel centro-sinistra (e nel PD in particolare) la situazione non è stata significativamente diversa.

Il Partito Democratico nacque, dopo l’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per mantenere in vita la collaborazione tra ciò che ancora rimaneva delle due esperienze politiche più importanti della Repubblica parlamentare nata dalla Resistenza: la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista.

All’esito della vicenda di “mani pulite” (che distrusse totalmente il Partito Socialista e ridimensionò notevolmente la DC, coinvolti più degli altri nel sistema corruttivo scoperto dalla magistratura) e dopo la discesa in campo di Berlusconi, che cavalcò la voglia di cambiamento molto viva nel Paese, gli ultimi rappresentanti del “cattolicesimo popolare” e del “social-comunismo” provarono a fare fronte comune per impedire la vittoria della destra e la deriva populista di matrice berlusconiana.

L’idea, in sé, era buona, se avesse avuto come obiettivo la costruzione di un nuovo partito che “fondesse” il meglio delle diverse esperienze, tradizioni e scelte politiche.

La sua realizzazione, però, fu inficiata da un vizio di origine, ben espresso dalla definizione allora prevalente tra gli aderenti al nuovo partito: nel PD si sarebbe concretizzata “la contaminazione” dei valori espressi dai post-comunisti con quelli proposti dai post-democristiani!

Quella definizione fu un vero e proprio lapsus! Avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che usando quel sostantivo (contaminazione) si rischiava di ipotecare il risultato finale! E così fu: perché contaminazione è sinonimo di contagio, di inquinamento, di corruzione, di infezione, di profanazione, di disonore e di offesa. In altre parole, perché quel termine serve per descrivere tutto ciò che potrebbe portare le conseguenze più pericolose per l’integrità delle persone e delle comunità.

In quella contaminazione trae origine e fondamento il risultato “ultimo” (quello del 4 marzo) dell’incontro tra culture, valori ed esperienze politiche sino ad allora in opposizione tra loro che confluirono nel nascente partito. Oggi, a posteriori, si può ben dire che ognuno dei due “confluenti” portò in dote il peggio di sé: per qualità della classe dirigente, in relazione alle loro cattive abitudini e, soprattutto, alla volontà di occupare le Istituzioni per asservirle non solo ai vantaggi per il partito ma, addirittura, ai meschini interessi personali degli esponenti politici.

Certo, vi furono pure eccezioni ed esempi di partecipazione con connotati e spirito diverso, basti, per tutti, citare la figura di Veltroni che pur avendo portato il partito ad un risultato di assoluto rilievo, scelse di farsi da parte perché sconfitto dall’alleanza di centro-destra alle politiche del 2008 ed alle successive regionali del 2009.Ma quel partito si è distinto, in tutti questi anni, per le lotte di potere, per i tradimenti più impensabili, per le contraddizioni continue ed evidenti (per non parlare della corruzione dilagante che, negli ultimi tempi, ha toccato, quasi quotidianamente, dirigenti ed amministratori locali del PD).

Non solo, e infatti mi chiedo: qualcuno potrebbe, mai, paragonare la scissione di LeU a quelle che ha subito la Sinistra italiana nella prima repubblica? E qualcuno potrebbe offrire alla pubblica opinione una motivazione che possa giustificarla, rispetto alla convinzione generale che essa è nata, quasi esclusivamente, dalla voglia di una rivincita personale di alcuni dirigenti che, sopraffatti dallo strapotere di Renzi, non trovavano alcuno spazio di movimento e di potere nel partito e nelle Istituzioni?

Ecco perché, quella sciagurata contaminazione ha concorso, in misura determinante, al fallimento della storia della sinistra italiana e della tradizione dei cattolico-democratici (per quest’ultimi, peraltro, il fallimento fu favorito e determinato anche da quella parte dell’Episcopato italiano che si fece promotore del “pluralismo” della presenza dei cattolici in politica). 

Ma sono stati gli uomini (i dirigenti del PD) a sbagliare prima e più degli altri!

Perché, se è vero che la cosiddetta antipolitica è risultata alla fine vincitrice, il merito  di ciò può essere attribuito solo ed esclusivamente a quei dirigenti politici, dei partiti, che hanno fatto di tutto per convincere i cittadini: 1) che la Politica era una cosa “brutta e sporca”; 2) che essa era esercitata solo, o quasi esclusivamente, nell’interesse di pochi; 3) che i politici erano “naturalmente” chiamati ad occuparsi  dei loro privilegi e dell’esercizio del potere in danno dei cittadini; 4) che, per loro, la Legge non era eguale come per tutti gli altri cittadini; 5) che molti di loro, pur scoperti nelle ruberie, corruzioni, malefatte e/o prevaricazioni riuscivano sempre a cavarsela (con una prescrizione o una leggina salvifica); 6) ed infine, che nessun politico aveva, mai, denunciato un corruttore e nessun partito, prima dell’intervento della magistratura, si era accorto dell’esistenza di quelle che, con il senno di poi, avrebbero chiamato le “mele marce” (quelle stesse che, essi, ipergarantisti per principio, continuavano a “conservare in un’unica credenza” senza preoccuparsi del fatto che potessero contagiare le poche mele sane, se mai ve ne fossero).

Queste convinzioni hanno causato una grave “rottura” tra i partiti e la pubblica opinione sicché i cittadini, al momento del voto, hanno fatto, più o meno, questo tipo di ragionamento: se è vero che la Politica è corrotta, se è vero che gli uomini politici non sono in grado, da soli, di “liberarsi” della patologia che li infesta, delle due l’una, o essi sono “collusi” con i corrotti (cioè hanno sempre saputo delle corruzioni e le hanno sopportate per indicibili convenienze, pur senza compartecipare ad esse) oppure essi sono stati così inetti ed incapaci da non accorgersi di niente!

Nell’uno come nell’altro caso, proprio “i migliori e quelli più onesti tra loro” avrebbero meritato, comunque, di essere bocciati e sostituiti nella guida del Paese (anche, al limite, con soggetti di scarsa qualità politica e di nessuna esperienza amministrativa). 

E dire che Barca, nel suo Manifesto, aveva (con chiara lucidità intellettuale) ampiamente descritto e spiegato quale fosse la reale situazione della Politica italiana e, particolarmente, del Partito Democratico, al quale aveva rivolto le sue attenzioni sollecitando quelle novità e quei cambiamenti che, se fossero state almeno avviate, avrebbero potuto impedire la catastrofe!