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Le responsabilità di Renzi e del “suo” Gruppo dirigente

Continua la pubblicazione de Il Dono: capitolo V

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Il capolavoro del Partito Democratico, finalizzato al definitivo fallimento politico, si è concretizzato, in ultimo, con le scelte politiche di Renzi alla guida del PD e del governo del Paese.

Eppure, l’ex sindaco di Firenze aveva, inizialmente, aperto la mente ed i cuori degli elettori e simpatizzanti del PD alla speranza di un rinnovamento radicale degli uomini e dei costumi della politica. E bisogna dire che, in parte, c’era pure riuscito!

Probabilmente, al momento della sua scalata al vertice del partito, aveva intuito le difficoltà della classe dirigente del PD, sempre più autoreferente ed incapace di formulare proposte nuove per il futuro del Paese.

Certamente, il tentativo di rinnovamento avviato dall’ex sindaco di Firenze è stato, in parte, concreto e, se si vuole, anche visibile. L’idea della rottamazione di un metodo di far politica che “aveva ingessato” il PD, riducendolo solo a strumento di gestione del potere, accese nel cuore degli italiani un entusiasmo che avrebbe meritato ben altri esiti.

Furono in tanti, allora, ad illudersi che quella nuova classe dirigente sarebbe riuscita a diffondere, nel corpo “morente” del partito, i germi di una rinascita culturale e politica che prometteva cambiamenti radicali. Dopo anni di lotte, nel partito “tornò” la discussione politica: le tematiche delle Direzioni del PD ebbero una buona accoglienza nella pubblica opinione (che poteva seguirli in diretta TV) e persino alcune scelte di campo riuscirono a colpire la fantasia dei cittadini che sognarono il ritorno alla buona prassi ed alla partecipazione attiva di nuovi, anche giovani, simpatizzanti.

Ecco, se dovessi individuare una data che ha segnato il momento di rottura con l’idillio iniziale che il renzismo era riuscito a creare nel Paese, sarei in difficoltà! Probabilmente, il concorso di una molteplicità di fattori (e di errori) hanno portato quel leader (ed il suo partito) alla sconfitta più grande che la storia politica italiana possa ricordare.

Certamente, il momento più significativo è stato quello del Referendum Costituzionale: quando il coraggio di Renzi, nel proporre una riforma delle istituzioni, in parte attesa dalla opinione pubblica, fu sonoramente bocciato dai cittadini che vollero punire alcune scelte inopportune del leader del PD.

La responsabilità più grande di Renzi trovò origine nel “delirio di onnipotenza” che segnò quella fase politica! Il doppio ruolo di Presidente del Consiglio e Segretario del PD fu visto con grande preoccupazione da parte dell’opinione pubblica nazionale. Tutti coloro che avevano combattuto contro lo strapotere di Berlusconi rabbrividirono rispetto alle capacità espansive di una leadership più giovane ed anche meno esposta, sul piano etico, del padre-padrone di Forza Italia.

Nel momento in cui decise di puntare tutto sulla Riforma delle Istituzioni, Renzi commise il primo grave errore di non “guardarsi le spalle”: di non placare, cioè, le tensioni all’interno del suo partito (se mai con qualche compromesso a favore delle ambizioni di potere di alcuni personaggi della sinistra ex DS). Sbagliò, anche, perché si illuse sul fatto che, avendo cooptato alcuni giovani della sinistra ex DS, l’elettorato post-comunista potesse seguirlo insieme a quei dirigenti, elevati ai vertici del partito o dello stato. Quella parte di popolo, però, aveva già fatto scelte diverse ed in parte si accingeva a farle!

Poi, continuò, imperterrito, ad imporre il suo progetto di riforma, a colpi di fiducia, prima al partito e poi al Parlamento! Con la conseguenza che una parte del PD si schierò, pubblicamente, contro avviando, nei fatti, quella sciagurata scissione che fu, poi, una concausa della deflagrazione del 4 marzo.

In ultimo, l’ingenuità madornale di “intestarsi” la battaglia referendaria, sperando nel “cappotto”: 1) ripulire il partito da quella che lui riteneva la zavorra ideologica di sinistra; 2) riformare lo Stato accogliendo alcune istanze “populiste”; 3) riformare la legge elettorale confidando nei risultati delle europee e nella capacità attrattiva del suo partito per le future alleanze.

Così, il Referendum costituzionale, anziché essere momento di scelta/approvazione delle nuove regole istituzionali, assunse i caratteri di plebiscito popolare “a favore o contro Renzi”, uno speciale referendum ad personam, che registrò alleanze improbabili (tra la destra berlusconiana e leghista con la sinistra estrema e quella populista) pur di mandare a casa il capo del Partito Democratico!

In quelle condizioni, il risultato (che sarebbe stato in bilico se gli elettori avessero dovuto giudicare il merito della riforma, senza farsi fuorviare dai rischi conseguenti alla legge elettorale) divenne scontato. Perché la figura del leader aveva, già, subito un notevole appannamento per effetto sia delle scelte relative alla classe dirigente che di quelle legate al governo del Paese. La sconfitta al referendum costrinse Renzi alle dimissioni come aveva, presuntuosamente, promesso in campagna elettorale e cominciò la fase di incertezza, contraddittorietà e precarietà politica che si esaurì nella scelta della nuova legge elettorale a ridosso del voto per il rinnovo del Parlamento.   

La bocciatura di Renzi (ed il suo “finto” disimpegno successivo) fu il primo passo di uno scivolone paurosamente diretto verso il burrone spalancatosi, poi, con il voto del 4 marzo.

Anche in quest’ultima fase, le scelte del PD furono assolutamente inadeguate: ispirate (possiamo ben dirlo a posteriori) da una volontà suicida nata nella confusione mentale nella quale fu gestito il partito che portò alla scelta del cosiddetto Rosatellum (la legge elettorale che ha condannato il PD all’irrilevanza).

Tutti compresero subito che quella legge, malgrado il doppio sistema di voto, sarebbe stata una normativa sostanzialmente “proporzionalista” (al contrario dell’Italicum e del maggioritario scelto dal PD al momento della sua fondazione). Fu subito chiaro che essa era stata costruita per bloccare la crescita del Movimento 5Stelle, introducendo una quota-parte di voto maggioritario nei collegi uninominali nei quali i “migliori” candidati sul territorio avrebbero concorso tra loro per la conquista di un seggio.

In altre parole, i grandi strateghi del PD erano certi che i 5Stelle, che avevano uno scarso radicamento sul territorio, per la loro precaria presenza nelle amministrazioni locali, sarebbero risultati soccombenti quasi dappertutto a vantaggio dei candidati PD certamente più conosciuti dalla opinione pubblica. Questa convinzione li indusse ad imporre, quasi ovunque, candidati di apparato: “parcellizzati” tra i partiti della coalizione di centro sinistra e le correnti del partito, personaggi noti ma esterni alla vita delle comunità! Non solo, ma l’altro errore di Renzi fu quello di agevolare la scissione: lasciando fuori una fetta dell’elettorato del PD ed immaginando che l’alleanza con le tre mini-formazioni di centro (Più Europa, Civica Popolare e Italia Europa Insieme) potesse accrescere il numero degli eletti del suo partito al proporzionale (perché, se nessuno di costoro avesse superato il 3%, i loro voti avrebbero favorito l’elezione dei candidati PD nelle stesse circoscrizioni).

Di fatto, chi mise in piedi quella legge non aveva nemmeno lontanamente pensato ad un successo così eclatante dei 5Stelle, anche nei collegi uninominali ed era sicuro che il PD sarebbe stato al centro di ogni possibile alleanza di governo post voto, in continuità con il “patto del Nazareno” che aveva permesso la vita degli ultimi governi. 

Fu, quella, la dimostrazione pratica delle scarse qualità strategiche di una classe dirigente improvvisata ed inadeguata!

Come si poteva pensare di proporre una legge elettorale che premiava le alleanze sapendo bene che, a seguito della scissione, il centro sinistra si presentava monco ai nastri di partenza, perché privo di una parte qualificante del suo elettorato? Come si poteva confidare sul “voto utile” in una fase di grande debolezza politica, successiva alla sconfitta referendaria ed alla scissione? E come, infine, si poteva costruire un risultato positivo imponendo, quasi esclusivamente, candidati di apparato, con la preoccupazione di “salvare” figure emblematiche del fallimento con le pluri-candidature ed i paracadute nei collegi proporzionali?

In ultimo, la campagna elettorale venne affidata ad una classe dirigente rassegnata e perdente che mostrò tutti i suoi limiti: per l’incapacità di “sentire” il polso dell’elettorato che ha preferito premiare il Movimento 5Stelle e la Lega di Salvini, malgrado le loro impreparazioni e la contraddittorietà e/o precarietà delle loro proposte.